fbpx
Home CulturaArte Chiesa di Santa Rosa a Livorno, la fede contemporanea di Michelucci

Chiesa di Santa Rosa a Livorno, la fede contemporanea di Michelucci

autore: Elisa Favilli

Mattoni rossi, inserti di marmo bianco, portale decentrato, ingresso laterale sopraelevato, campanile non in vista sul margine della strada, facciata che contraddice il senso classico della verticalità in favore di un rigoroso linearismo orizzontale. Con un occhio profano, passando per via Niccolò Macchiavelli 32, la Chiesa di Santa Rosa, nel quartiere dell’Ardenza di Livorno, mette in dubbio il lessico stesso con cui da secoli raccontiamo il vocabolo “Chiesa”. Concepita a quattro mani nel 1975 dagli architetti Giovanni Michelucci e Bruno Sacchi, l’edificio nel 1976 perde la prestigiosa firma dell’illustre architetto pistoiese, ma non la sua carica rivoluzionaria di riqualificare lo spazio sacro in funzione di una società contemporanea, in cui il tempo mistico e meditativo si deve far spazio tra la frenesia del tempo quotidiano. Sacchi seguirà il cantiere dei lavori dal 1981, anno della posa della prima pietra, fino al 1993, anno in cui nella Chiesa sarà celebrata la prima messa. Durante questo lungo periodo, irregolarità burocratiche, problemi economici, il difficile rapporto creatosi con le ditte edili che si susseguirono in corso d’opera e la morte stessa di Michelucci nel 1990, snatureranno in parte la freschezza del progetto iniziale. La leggerezza del tratto incisorio ricercato nelle travi reticolate previste nel sottotetto, con la loro poetica di rami sospesi, metafora di un elemento vivo e non mero sostegno architettonico, ad esempio, perderanno nella loro resa effettiva di masse piene e lineari tutta la loro dinamica ascensionale. Ma un errore di sintassi non compromette il senso narrativo del racconto. Soprattutto se questo prende forza da uno degli interventi urbani più interessanti realizzati in Italia nel corso degli anni ’50. Il “quartiere satellitare” La rosa, di Salghetti-Drioli. I mitici anni ’50, gli anni del boom economico, gli anni in cui l’Italia rinnegava il lato rigoroso del Movimento Moderno, riscoprendo la bellezza della sua identità rurale e campanilistica. Funzionalità, razionalità e sintesi, mentre funzionavano nei progetti di Alvar Aalto, le Corbusier o Le Perrier, nella penisola contesa tra il Tirreno e l’Adriatico, stridevano apertamente con la cultura locale, intrisa di estetica e valori agresti. La vecchia Aurelia è l’asse su cui si riflette la simmetria edilizia del quartiere, il motore propulsivo e centro di dinamismo per l’intero abitato. La metafora di vita, che come nella “Città che sale” di Umberto Boccioni, compenetra lo spazio privato delle case e la moltitudine dei passi dei passanti. La composizione planimetrica del quartiere si gioca tra una trama continua di corti chiuse e aperte, collegate da un sistema di percorsi pedonali, immersi in spazi verdi, dove l’elemento dominante è la ricerca di orizzontalità imposta ad ogni singolo edificio, marcata quest’ultima da marcapiani che fanno emergere la sottostante struttura in cemento armato e il profilo del solaio di copertura doppia rovesciata. I pilotis qui ignorano la lezione di Le Corbusier, abbandonano la loro struttura esile e leggera, per adottare la struttura di trave a mensola. I due architetti studiano i disegni di Alberto Libera per l’Unità abitativa orizzontale al Tuscolano, ma restano ancorati al vernacolo labronico. Nella stessa grammatica dove lo stesso Michelucci definisce il palcoscenico del suo spazio sacro. Lo si percepisce esattamente nell’asse viario compreso tra via Macchiavelli, via Gioberti e via Cattaneo. Qui Salghetti-Drioli progettano due edifici in linea, disposti in modo da formare una corte semiaperta, mentre tra via Machiavelli e via Cattaneo realizzano un edificio la cui planimetria ricorda la forma sinuosa di una S. I tre edifici a ballatoio, tutti elevati fino al terzo piano, rivelano la loro intelaiatura portante, sollevata da terra tramite pilotis, svelando i particolari di una Livorno che, nella cinta muraria presente dietro al monumento dei Quattro Mori e nei beccatelli in pietra dei Bastioni Medicei, trovano la loro musa. Memorie storiche di una trama edilizia che abbatte il concetto di tempo vissuto e torna a parlare di identità culturale. Se il quartiere nasce principalmente per risolvere un disagio imminente, ovvero eliminare le baraccopoli nate a seguito dei bombardamenti e garantire un alloggio decoroso alle famiglie meno abbienti, gli architetti realizzano case popolari progettarono con lo sguardo rivolto verso una dimensione sociale dell’abitare, ripartendo dal concetto di “vicinato”. Per questo i percorsi pedonali, l’arredo degli spazi condivisi, le panchine in pietra, diventano le basi per la ricreazione di un tessuto sociale di cui, già a partire dagli anni ’50, si cerca di prevenire la sua disgregazione. In questo spazio, Michelucci disegna La Chiesa della Rosa. Come gran parte delle sue opere l’architetto pistoiese, sceglie di utilizzare il materiale locale. Per questo tornano sull’epidermide dell’intero edificio il laterizio e i marcapiani in marmo. Mattoni che definiscono la superficie attraverso un gioco compositivo di linee, scivoli e accenni sottili di volumi dove la luce crea nella sua dinamiche naturali giochi sempre nuovi, trasformando il senso caldo della cromia delle terre in percezioni sensoriali che impercettibilmente strizzano l’occhio alla superficie della Fortezza Vecchia, al cotto dell’Impruneta, al bugnato di Palazzo Ricciardi o semplicemente nei cascinali dei poderi sparsi nell’entroterra toscano. Per capirla bisogna spingersi oltre il piano stradale, oltrepassare lo spazio del quotidiano per cercare quel dialogo intimo con Dio, nel tempo meditativo della “Ecclesia”, ovvero quella comunità fatta di uomini che attraverso il senso comunitario ritrovano la propria comunione con quell’oltre fatto di spirito e conoscenza. Seguendo le linee guida delle chiese realizzate nel corso degli anni’70, (Cuore Immacolato del Villaggio Belvedere a Pistoia, San Giovanni Battista, lungo l’Autostrada del Sole, Santuario della Beata Vergine della Consolazione a Borgo Maggiore, San Giovanni Battista nel villaggio Giardino di Arzignano o Immacolata Concezione della Vergine a Longarone), Michelucci rivoluziona la sua immagine di chiesa, offrendo una lettura contemporanea della tenda sospesa tra la Gerusalemme Terrena e la Gerusalemme Celeste descritta nelle lettera di San Paolo ai……. Cambia la visione dell’aula, offrendo al fedele un nuovo punto di vista circa il proprio ruolo creatore di spazi, per uomini non più testimoni di una fede che ha compiuto il suo percorso narrativo, ma come membri attivi di una comunità in cui Dio rinnova il proprio Verbo al fine di creare racconti sempre nuovi. L’altare perde il suo ruolo centrale, non più fuoco prospettico, scenario barocco di effetti luministici dove si compie il rito escatologico di una chiesa che proietta la sua salvezza oltre il senso del vivere umano, ma in un tempo presente dove il Verbo si fa salvezza nel momento della condivisione lasciando spazio al tempo dell’ascolto. Quel tempo che si percepisce nell’aula che verso questo volge lo sguardo e crea uno spazio nuovo nelle sedute disposte lungo le gradinate che lo circondano. Sedute che diventano l’anello di congiunzione tra un tempo sospeso conteso dal piano stradale al ballatoio che sovrasta l’aula e conduce verso l’esterno, creando un percorso metaforico che riporta ogni singolo fedele ad essere parte di un quartiere, un centro urbano e di un senso civico che trova spessore nel concetto di pace. Fuori e dentro, ascensione e discensione, tutto è misurato secondo un limite di piani definito da un senso di luce che svela e non nasconde. Per questo la croce diventa elemento di luce, blocco di vetro colorato che sfonda il limite fisico della parete. Si accorciano le distanze tra uomo e Dio, si annulla il concetto mistico e trascendente della cultura paleocristiana, mentre, in rispetto ai nuovi dettami del Concilio Vaticano II, l’Ecclesia si dilata verso un Dio che si fa parte attiva di una vita contemporanea fatta di uomini che nel loro stato di singoli cercano in lui il senso di appartenenza. Percezione che Michelucci e Sacchi dilateranno oltre il senso limite della Chiesa, offrendo al visitatore la dimensione tridimensionale di uno spazio che si proietta oltre le sue porte, creando un tempo di ascolto nell’aula dedicata alle conferenze, uno spazio abitativo privato e un sagrato che diventa piazza e al tempo stesso momento riflessivo verso l’urbe che lo circonda.

Articoli Correlati

Lascia un commento

Questo sito utilizza cookies per migliorare la tua navigazione nel nostro sito. Accetta Leggi tutto

Cookies Policy